Vaccini e obblighi generali di tutela ex art.2087 c.c.
L’art.2087 c.c. stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Per quanto una vaccinazione sia un atto tipicamente medico, in ambito di sicurezza del lavoro un vaccino contro un rischio biologico specifico (ma anche generico aggravato) del lavoro non può che essere interpretato a tutti gli effetti, alla luce del D.Lgs 81/2008 ma anche e soprattutto dell’art.2087 del c.c., come una delle misure di protezione necessarie per la tutela della salute dei lavoratori che il datore di lavoro é tenuto ad adottare.
Le vaccinazioni da adottare nel campo della medicina del lavoro, pertanto, sono:
vaccinazioni obbligatorie quali sono quella antitetanica per le categorie di lavoratori indicati nell’art. 1 della legge 5 marzo 1963, n. 292, Legge 20 marzo 1968 n. 419, D.M. 16 settembre 1975, DPR 1301 del 7.9.65, DM 22.3.75 o quella antitubercolare (L.1088/70) in ambito sanitario.
vaccinazioni da valutare, assieme al medico competente, in base alla tipologia di rischio biologico (art.279 comma 2a D.Lgs 81/2008): tra le più comuni ricordiamo le anti HBV, antiHAV, antitifica ma, tenendo conto di come gli obblighi del datore di lavoro non vengano meno anche nel caso di trasferte di lavoro all’estero, l’elenco diventa davvero ampio.
Ovviamente, le vaccinazioni si pongono in posizione «sussidiaria» rispetto alle misure anticontagio alla fonte (cabine aspirate, contenitori a prova di aghi) e individuali (guanti, visiere paraschizzi, etc.), nel senso che di fronte ad un rischio di contagio, è necessario sempre prima privilegiare le misure che impediscono il contatto con il microrganismo e, solo una volta accertata l’impossibilità tecnica di evitare con assoluta certezza tale contatto, imporre vaccini specifici.
Gli obblighi di imposizione del datore di lavoro ed il problema del consenso
Come noto in dottrina, ogni atto medico trova i suoi presupposti di legittimità in un consenso libero e consapevole da parte del paziente, consenso che trova le sue fonti giuridiche negli artt.13 e 32 della Costituzione e nell’art.5 del codice civile. In materia di sicurezza sul lavoro, però, è altrettanto noto come “le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore” (Cass. pen. sez. IV, 5.2.1991, n.1170).
Un lavoratore esposto a rischio biologico che lavori senza essere preventivamente vaccinato, rappresenta per il datore di lavoro una situazione di pericolo permanente e «conoscibile» che fa automaticamente sorgere un corrispondente e tassativo obbligo per l’imprenditore di attivarsi e ridurre prontamente al minimo tecnicamente fattibile il rischio. Pertanto, in tal caso, così come per le altre misure di sicurezza sul lavoro, il datore di lavoro ha l’obbligo di richiamare anche disciplinarmente il lavoratore che rifiutasse tale vaccinazione. Diversamente, infatti, qualora si concedesse al lavoratore la arbitraria possibilità di rifiutare la vaccinazione, l’art.2087 del c.c. si trasformerebbe in una illegittima fonte di responsabilità oggettiva per il datore di lavoro: se il datore di lavoro è tenuto per legge ad adottare tutte le misure “necessarie” per la tutela dei dipendenti, è ovvio come egli debba potere fare ciò senza ingerenze o limitazioni.
Ogni rifiuto di sottoporsi al vaccino da parte di un lavoratore vanificherebbe tutta la struttura legislativa della tutela della sicurezza del lavoro subordinato ponendo nel nulla la posizione di “garanzia” posta a carico del datore di lavoro, posizione che trova la sua legittimità nella possibilità da parte dell’imprenditore di esercitare i poteri economico, decisionale e sanzionatorio senza alcuna ingerenza o limitazione (secondo i principi giuridici di «effettività» e di «esigibilità della condotta»). Infatti, se da un lato la natura di trattamento sanitario del vaccino, riconducibile alle previsioni dell’art.32 della Costituzione, crea rilevanti problematiche giuridiche in ipotesi di potenziali effetti collaterali (vedi oltre), dall’altro rende il rifiuto del lavoratore ed ogni forma di liberatoria da parte di questi prive di ogni valore giuridico, in quanto:
1. L’art.41 della Costituzione garantisce all’imprenditore libertà di impresa (primo comma) a condizione che questa non si svolga contro la utilità e la sicurezza sociale (secondo comma).
La salute, rappresentando uno dei «diritti fondamentali» protetti della Costituzione (art.3218), rappresenta tipico esempio di «diritto indisponibile»: come tutti i diritti indisponibili non è pertanto suscettibile di essere scambiata o ceduta, anche parzialmente, mediante patti o accordi anche impliciti.
2. Allo scopo di bilanciare i diritti tutelati dagli articoli 41 e 32 della Costituzione, il legislatore ha formulato l’art.2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che dovessero rendersi necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore e che rende il datore di lavoro suscettibile di responsabilità penale e civile nei confronti del lavoratore.
3. Nel momento in cui il datore di lavoro concedesse al lavoratore una esenzione dal sottoporsi alla vaccinazione, verrebbe sotteso necessariamente una sorta di patto in cui il lavoratore, in cambio dell’esenzione di sottoporsi alla vaccinazione, «pattuirebbe» una rinuncia al richiedere eventuali risarcimenti al datore di lavoro, non più in grado di adottare tutte le misure di sicurezza richiestigli dalla legge.
4. Ma questo tipo patto rappresenterebbe un chiaro esempio di «cessione» parziale da parte del lavoratore del proprio diritto alla salute tutelato dall’art.32 della Costituzione e quindi, proprio per la «natura indisponibile» di questo diritto fondamentale, non sarebbe ammissibile.
5. Oltretutto, un accordo di questo tipo sarebbe per il datore di lavoro privo di ogni valore liberatorio in termini di responsabilità penale, in quanto le norme della sicurezza su lavoro, tra le quali rientra l’obbligo di sottoporsi alle vaccinazioni, appartenendo al diritto pubblico, non possono essere derogate da accordi privati, espliciti o impliciti che siano.
6. Si consideri, infine come l’obbligo di vaccinazioni configuri un reato perseguibile d’ufficio e non a querela, per cui ogni patto in materia non influenzerebbe in alcun modo l’iter giudiziario dell’eventuale illecito.
7. Su un piano più pratico, inoltre, ogni eventuale accordo tra datore di lavoro e lavoratore potrebbe costituire agevole possibilità di sistematico aggiramento della legge, in quanto potrebbe consentire al datore di lavoro, di ottenere dai propri dipendenti documenti utili a non applicare questa ed altre norme antinfortunistiche.
8. Tutto quanto sopra, infine, diventa particolarmente rilevante, alla luce dell’autorevole insegnamento dei Supremi giudici, “… quando si tenga conto dello stato di soggezione del lavoratore dipendente nei confronti del datore di lavoro e del conseguente potere di suggestione di quest’ultimo; e quando si tratti di tutelare diritti per loro natura indisponibili e costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla salute” (estratto da Cass. Penale sez. VI, sentenza n. 1473 del 4.2.99). Tale vizio del consenso del lavoratore subordinato viene chiarito anche nella recente Cassazione penale, Sez. III, n. 1728 del 21 gennaio 2005, in materia di consenso espresso dal lavoratore all’effettuazione di visite da parte del medico aziendale durante il periodo di malattia (viste vietate dall’art.5 dello Statuto dei lavoratori), ove si legge come «a) disponibili sono soltanto i diritti individuali privi di rilevanza pubblica; b) indisponibili sono quei diritti che soddisfano, oltre all’interesse individuale dei titolare, anche interessi superindividuali riconosciuti dall’ordinamento; e) è viziato, e quindi privo di efficacia scriminante, il consenso prestato da un soggetto passivo che si trovi in una condizione di inferiorità nei confronti dell’agente».