mercoledì 17 ottobre 2012

Carenze antinfortunistiche e strutturali: ne risponde il datore di lavoro

Il Tribunale ha riconosciuto la responsabilità di due fratelli soci di una società li ha condannati per il reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro in danno di un lavoratore dipendente nonché al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili. La sentenza è stata successivamente riformata parzialmente dalla Corte d’appello che ha rivisto le pene concedendo a tutti e due gli imputati le attenuanti generiche. Vediamo la dinamica dell’infortunio: mentre il lavoratore si trovava sul tetto in eternit di un capannone per sostituire alcune lastre danneggiate è caduto al suolo a seguito della rottura di una di queste lastre decedendo. Agli imputati era stato mosso l’addebito, nelle loro vesti di datori di lavoro, di non aver apprestato le cautele atte a garantire la sicurezza della lavorazione e di non aver formato correttamente il dipendente in funzione dello specifico incarico assegnatogli, trattandosi di un operaio con qualifica di falegname.

I due imputati hanno fatto ricorso in cassazione sostenendo il primo di aver rassegnate le dimissioni in epoca anteriore al fatto, sebbene esse non fossero state accettate, e che non si era intromesso in alcun modo nella direzione dell’attività lavorativa che era affidata a suo fratello. Lo stesso ha sostenuto inoltre che il giorno dell’infortunio era assente dalla scena del fatto in quanto convalescente per un precedente incidente e che, contrariamente a quanto indicato in sentenza, all’interno dello stabilimento si era provveduto ad innalzare un ponteggio per sostituire alcune lastre di copertura del tetto che erano state danneggiate dalle intemperie. L’operazione di riparazione, ha sostenuto ancora il secondo imputato, era stata compiuta dalla vittima operando dall’interno del capannone e senza salire sul tetto e che al termine dei lavori il ponteggio era stato smontato per cui arbitrariamente il lavoratore infortunato si era portato successivamente sul tetto, forse per recuperare alcuni attrezzi che vi aveva deposto, e, posto un piede su una lastra in eternit che si era rotta, era caduto al suolo. Secondo lo stesso quindi il lavoro era stato eseguito in sicurezza e la vittima, con la sua condotta arbitraria e sconsiderata, aveva innescato un fattore causale interruttivo del nesso causale.

Circa le responsabilità penali la Sez. IV ha posto in evidenza che, ai sensi dell’articolo 2087 c.c., gli imputati, nella loro veste di datori di lavoro, erano entrambi gravati da posizione di garanzia ed inoltre che il lavoratore era operaio generico addetto alla falegnameria, mansione del tutto diversa da quella inerente alla riparazione del tetto, per la quale non aveva alcuna formazione specifica. “D’altra parte”, ha proseguito la Corte suprema, “le modalità della lavorazione in corso erano dettate dalla scelta aziendale di risparmiare compiendo in proprio un’attività di ripristino rischiosa ed estranea alle mansioni dei dipendenti” per cui “si è dunque in presenza di una scelta strutturale e non contingente che coinvolge, conseguentemente, la responsabilità di tutti gli imputati” compreso il fratello assente, nella sua qualità di socio e consigliere, e che non aveva posto in essere alcuna delega di funzioni.

In merito al comportamento del lavoratore la Sez. IV ha sostenuto, inoltre, che sebbene non fosse emerso chiaramente il motivo per il quale la vittima si era portata nuovamente sul tetto, non vi era dubbio che tale condotta aveva avuto luogo in relazione al compito affidatogli dai datori di lavoro e che in ogni caso, anche se il lavoratore infortunato fosse tornato sul tetto di sua iniziativa, il fatto non era da considerare eccezionale o imprevedibile e tale da escludere la responsabilità dei datori di lavoro, in quanto si era trattato di attività connessa alla riparazione in quota che gli era stata affidata, oltre al fatto che era stato accertato un grave deficit di formazione, informazione e vigilanza da parte dei datori di lavoro stessi nei confronti di un dipendente privo di competenze specifiche.

“Risulta quindi correttamente argomentata l’inferenza finale”, ha proseguito la Sez. IV, in quanto “le lavorazioni avvenivano in modo pericoloso ed incauto per effetto di una dissennata scelta aziendale volta a minimizzare i costi procedendo in economia, in assenza di impalcature e procedure appropriate nonché utilizzando personale per nulla formato a governare l’altissimo rischio connesso alla circolazione su un tetto costituito da fragili lastre di eternit”. “Trattandosi non di fatto occasionale ma di scelta aziendale”, ha quindi concluso la suprema Corte, “correttamente è stata ravvisata la responsabilità di tutti i ricorrenti”.

M.D.